lunedì 14 gennaio 2013

Primo Levi



(Torino 1919 - 1987)
Nato da genitori ebrei benestanti di tradizioni intellettuali studia al liceo classico Massimo D’Azeglio - ove si diploma nel 1937 - per poi iscriversi al corso di laurea in chimica della facoltà di Scienze dell’Università di Torino. A seguito dell'instaurazione delle leggi razziali che discriminano gli ebrei (cui viene vietato l'accesso alla scuola pubblica), Levi ha difficoltà a trovare un relatore per la sua tesi. Si laurea, tuttavia, nel 1941.
Impiegatosi a Milano presso una fabbrica svizzera di medicinali, nel 1942 entra nel Partito d’Azione e compie una breve esperienza da partigiano nella Val d’Aosta: catturato nel dicembre del 1943, è deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, dove resta dal febbraio ‘44 al gennaio ‘45. Rientrato avventurosamente a Torino, trova lavoro in una ditta di produzione di vernici ed inizia a dedicare un tempo via via maggiore alla scrittura.
Esordisce nella narrativa nel ‘47 con “Se questo è un uomo”: rifiutato dalla Einaudi ed uscito presso l’editore De Silva con poco successo, il romanzo viene tuttavia risarcito nel 1958, quando appare nella collana dei “Saggi” einaudiani.
Accostabile ai testi più significativi dedicati alla tragedia dell’Olocausto, quali il “Diario” di Anna Frank e “L’istruttoria” di Peter Weiss, “Se questo è un uomo” narra con occhio lucido, quasi entomologico (nello scrivere questo libro ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore), l’inferno dei lager, gli orrori subiti da chi vi era internato, quale fu - per dirla con Bruno Bettelheim - “il prezzo della vita” per i sopravvissuti.
La traumatica esperienza segna per sempre l’autore, che continuerà a interrogarsi su di essa per quasi cinquant’anni (C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo soluzione al dilemma. La cerco ma non la trovo), sino alla tragica morte per suicidio.
Delle altre sue opere, è opportuno menzionare almeno “La tregua” (1963), cronaca dell’avventuroso ritorno a casa dopo la liberazione, che gli fa vincere il premio Campiello; “Il sistema periodico” (1975), costituito da storie ispirate dai vari elementi chimici; “La chiave a stella” (1978), ove si celebra la professionalità di un operaio e si raccontano i riti del cantiere e della fabbrica; “I sommersi e i salvati” (1986), in cui la riflessione sull'atroce esperienza dei campi di concentramento procede di conserva con un’analisi lucida dei guasti della società contemporanea.


Se questo è un uomo

"Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no"
Reduce da Auschwitz, nel 1947 Primo Levi pubblica “Se questo è un uomo”, il diario di prigionia che aveva iniziato a scrivere in campo di concentramento: una testimonianza sconvolgente dell’orrore dei Lager, un documento che ricostruisce l’umiliazione, l’offesa, la degradazione che annienta l’umanità prima ancora dello sterminio di massa. Come afferma l’autore nella prefazione, il libro nasce dal “bisogno di raccontare”, è in primo luogo una liberazione interiore, nata da quella “pena del ricordarsi” mirabilmente descritta nel capitolo “Die drei Leute vom Labor”.
L’esperienza di chimico permette all’autore di essere scelto come operaio specializzato e di avere accesso al laboratorio; qui, nei momenti di tregua, quando riesce a sottrarsi al vento e al freddo, egli sente “il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo”, quando “la coscienza esce dal buio” e la scrittura è un modo di fissare quell’esperienza disumana:

“Allora prendo la matita e il quaderno, e scrivo quello che non saprei dire a nessuno”.

Gli appunti del laboratorio bisognava distruggerli, ma subito dopo la liberazione l’autore scrisse il libro perché i ricordi bruciavano ed è proprio sulla base del ricordo che si sviluppa la narrazione, fedele ricostruzione di quel mondo atroce che iniziava al di là del filo spinato del cancello del campo di concentramento, dopo la scritta Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi, segno di confine tra umano e disumano.
All’interno del filo spinato, in cui si svolge gran parte del racconto, è come se i prigionieri fossero già morti, perché la vita del campo ne cancella la dignità d’uomini.
Ricordo, analisi asciutta e rigorosa della vita ad Auschwitz, che viene ricostruito nella sua topografia, nei suoi ritmi atroci, e anche monito, come annuncia la poesia Considerate che questo è stato, Se questo è un uomo è un’opera unica per la lucidità della memoria, la profondità della riflessione che aggiunge alla sofferenza personale una straordinaria qualità letteraria.
Il racconto narra due inverni terribili ad Auschwitz, dal ’44 alla liberazione, dalla deportazione narrata nel capitolo “Il viaggio” all’arrivo nel campo in “Sul fondo”, che racconta la perdita di identità, i prigionieri tatuati con un numero.
Nei capitoli successivi, la narrazione documenta i giorni e le notti, l’incubo del comando del risveglio Wstawàc, le morti, il freddo, la fame che portano alla progressiva “bestializzazione” dei prigionieri, nucleo del capitolo “Al di là del bene e del male” in cui emerge la legge del campo che è quella del più forte ed invita il lettore a riflettere su quanto del comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato.
L’epilogo drammatico, “Storia di dieci giorni”, narra la disperata fuga di alcuni deportati in seguito all’abbandono del campo da parte dei tedeschi, che avevano compiuto la propria opera di distruzione nonostante la disfatta perché, come afferma l’autore nel diario di quegli ultimi giorni,

“parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non–umana l’esperienza di chi è stato cosa agli occhi dell’uomo”.
La tregua
Sognavamo nelle notti feroci/ Sogni densi e violenti/ Sognati con anima e corpo:/ Tornare; mangiare; raccontare.
Pubblicato nel 1963, “La tregua” è considerato uno dei capolavori di Primo Levi. Diario del viaggio verso la libertà dal campo di concentramento di Auschwitz, è il seguito di “Se questo è un uomo”. Un’odissea che attraversa le rovine dell’Europa liberata, attraverso la Russia, la Romania, l’Ungheria, l’Austria fino a Torino.
E’ un viaggio di ritorno verso la civiltà, lontano dall'annientamento umano del lager, che i reduci intraprendono con un senso di vergogna per quanto subito: “la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui”.
A poco a poco, in un susseguirsi d’avventure, i superstiti ritrovano le forze, si mescolano tra loro, si aiutano l'un l'altro perché sono "tornati ad essere delle persone", da Cesare, l’italiano che introduce l’autore nel mercato nero di Katowice, “amico di tutto il mondo, vario come il cielo, festoso, furbo e ingenuo, temerario e cauto, molto ignorante, molto innocente, e molto civile”, al Moro di Venezia, il grande vecchio che sembra uscito dall’Apocalisse, al piccolo Hurbinek, il bambino nato ad Auschwitz che non aveva mai visto un albero.
Nell’avvicinarsi a casa “in un silenzio gremito di memoria”, l’autore ricorda che di seicentocinquanta italiani che erano partiti ritornavano in tre, “vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi”.
La prova del ritorno alla vita è carica d’angoscia, dopo “la tregua” dei mesi trascorsi in viaggio che sono stati “una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino", tra l’inferno del lager e il ritorno alla “normalità” perché sempre, oltre la famiglia e la casa ritrovata, esiste l’eco di "una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell'alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, Wstawac.

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