Biografia
Leonardo Sciascia nasce
l'8 gennaio 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, primo di tre fratelli
da un impiegato, Pasquale Sciascia, e da una casalinga, Genoveffa Martorelli.
La madre proviene da una famiglia di artigiani mentre il padre è impiegato
presso una delle miniere di zolfo locali e la storia dello scrittore ha le sue
radici nella zolfara dove hanno lavorato il nonno e il padre.

Nel capoluogo nisseno
trascorrerà gli anni più indimenticabili della sua vita, come lui stesso
confessa nella sua autobiografia, fatti delle prime esperienze e delle prime
scoperte della vita oltre a imprimersi la sua formazione culturale.
Richiamato alla visita
di leva viene considerato per due volte non idoneo, ma alla terza viene
finalmente accettato e assegnato ai servizi sedentari.
Oltre all'attività
letteraria, Sciascia ebbe anche un'intensa esperienza giornalistica, scrivendo
per numerosi giornali e riviste italiane.
Sul Corriere della Sera
il 10 gennaio 1987, Sciascia pubblicò l'articolo "I professionisti
dell'antimafia", nel quale stigmatizzava fortemente il comportamento di
alcuni magistrati palermitani del pool antimafia, definendoli "eroi della
sesta", i quali a suo parere si erano macchiati di carrierismo,
utilizzando la sacrosanta battaglia per la rinascita morale della Sicilia come
titolo di merito all'interno del sistema correntizio delle promozioni in
magistratura (nomina anche Borsellino).
Dopo la pubblicazione
dell'articolo Sciascia fu bersagliato dagli attacchi di molte personalità della
cultura e della politica e venne isolato dalle maggiori forze politiche, eccezion
fatta per i Radicali ed i Socialisti. L'associazione Coordinamento Antimafia,
che dallo scrittore venne definita «una frangia fanatica e stupida», lo tacciò
d'essere un quaquaraquà «ai margini della società civile».
Il capolavoro di
Sciascia è Il giorno della civetta
È il primo romanzo “giallo” di
Sciascia, edito nel 1961, che annovera, fra gli altri, il pregio di costituire
la prima opera narrativa destinata a un vasto pubblico e incentrata sul tema
della mafia, fenomeno criminale che il potere politico, e clericale, tendeva
allora a ignorare.
In una Sicilia “metafora del mondo”,
un capitano di polizia, Bellodi, indaga sull’omicidio di un costruttore e su
quello di un contadino giustiziato in quanto testimone della fuga di uno degli
assassini. Attraverso la testimonianza di un confidente dei carabinieri egli
riesce ad arrivare al potente “padrino” don Mariano Arena e a farlo arrestare.
Il fatto provoca allarme negli ambienti politici romani collusi con il potere
mafioso: durante un dibattito parlamentare un deputato arriva ad affermare che
la mafia non esiste se non come prodotto della fantasia dei “socialcomunisti”. In
congedo per malattia, il capitano Bellodi torna a Parma, sua città d’origine, e
lì apprende dai giornali che tutta la sua indagine è stata vanificata da una
serie di deposizioni che forniscono falsi alibi ai responsabili dei delitti.
Don Mariano, trionfante, viene scarcerato. Ma Bellodi non si arrende e
manifesta il fermo proposito di tornare in Sicilia. “Mi ci romperò la testa”,
sono le sue parole che chiudono il libro.
Nell'incontro con
Bellodi, Sciascia fa pronunciare a don Mariano la frase contenente
l'espressione idiomatica "quaquaraquà", destinata a divenire
celeberrima e collegata nella cultura popolare al mondo mafioso e ai concetti
che lo governano:
«
Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo
la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque
categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando)
pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè
mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor
più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie
che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che
vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere
come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più
espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte
come un Cristo, lei è un uomo… »
(don Mariano Arena al
capitano Bellodi)
Con i suoi pensieri e
con la sua ultima affermazione, Bellodi chiude il romanzo:
«
[...] si sentiva come un convalescente: sensibilissimo, tenero, affamato. «Al
diavolo la Sicilia, al diavolo tutto». Rincasò verso mezzanotte, attraversando
tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta.
"In Sicilia le nevicate sono rare" pensò: e che forse il carattere
delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole
prevalessero. Si sentiva un po' confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva,
lucidamente, di amare la Sicilia e che ci sarebbe tornato. «Mi ci romperò la
testa» disse a voce alta. »
Conclusioni
Sciascia è stato il
primo a parlare di mafia in un romanzo e possiamo affermare che grazie a lui
noi sappiamo che la mafia c’è. La mafia
è rappresentata come una borghesia parassitaria; il popolo come composto di “ciechi
e sordi”.
Solo un altro romanzo
avrà lo stesso fortissimo impatto del Giorno
della civetta: Gomorra di
Saviano. Sciascia fa parlare i documenti che ha consultato e ne costruisce una
storia.
Sciascia temeva di
essere dimenticato dopo la morte. Impossibile sia per il successo
internazionale in vita, sia per la carica innovativa del suo romanzo: un
poliziesco all’incontrario. C’è il morto ammazzato, ma non c’è soluzione.
Nessun commento:
Posta un commento