domenica 13 gennaio 2013

Leonardo Sciascia



Biografia

Leonardo Sciascia nasce l'8 gennaio 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, primo di tre fratelli da un impiegato, Pasquale Sciascia, e da una casalinga, Genoveffa Martorelli. La madre proviene da una famiglia di artigiani mentre il padre è impiegato presso una delle miniere di zolfo locali e la storia dello scrittore ha le sue radici nella zolfara dove hanno lavorato il nonno e il padre.
A sette anni Sciascia inizia la scuola elementare a Racalmuto. Nel 1935 si trasferisce con la famiglia a Caltanissetta dove si iscrive all'Istituto Magistrale "IX Maggio" nel quale insegna Vitaliano Brancati, che diventerà il suo modello e che lo guida nella lettura degli autori francesi, mentre l'incontro con un giovane insegnante, Giuseppe Granata (che fu in seguito senatore comunista), gli fa conoscere gli illuministi e la letteratura.
Nel capoluogo nisseno trascorrerà gli anni più indimenticabili della sua vita, come lui stesso confessa nella sua autobiografia, fatti delle prime esperienze e delle prime scoperte della vita oltre a imprimersi la sua formazione culturale.
Richiamato alla visita di leva viene considerato per due volte non idoneo, ma alla terza viene finalmente accettato e assegnato ai servizi sedentari.
Oltre all'attività letteraria, Sciascia ebbe anche un'intensa esperienza giornalistica, scrivendo per numerosi giornali e riviste italiane.
Sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1987, Sciascia pubblicò l'articolo "I professionisti dell'antimafia", nel quale stigmatizzava fortemente il comportamento di alcuni magistrati palermitani del pool antimafia, definendoli "eroi della sesta", i quali a suo parere si erano macchiati di carrierismo, utilizzando la sacrosanta battaglia per la rinascita morale della Sicilia come titolo di merito all'interno del sistema correntizio delle promozioni in magistratura (nomina anche Borsellino).
Dopo la pubblicazione dell'articolo Sciascia fu bersagliato dagli attacchi di molte personalità della cultura e della politica e venne isolato dalle maggiori forze politiche, eccezion fatta per i Radicali ed i Socialisti. L'associazione Coordinamento Antimafia, che dallo scrittore venne definita «una frangia fanatica e stupida», lo tacciò d'essere un quaquaraquà «ai margini della società civile».

Il capolavoro di Sciascia è Il giorno della civetta

È il primo romanzo “giallo” di Sciascia, edito nel 1961, che annovera, fra gli altri, il pregio di costituire la prima opera narrativa destinata a un vasto pubblico e incentrata sul tema della mafia, fenomeno criminale che il potere politico, e clericale, tendeva allora a ignorare.
In una Sicilia “metafora del mondo”, un capitano di polizia, Bellodi, indaga sull’omicidio di un costruttore e su quello di un contadino giustiziato in quanto testimone della fuga di uno degli assassini. Attraverso la testimonianza di un confidente dei carabinieri egli riesce ad arrivare al potente “padrino” don Mariano Arena e a farlo arrestare. Il fatto provoca allarme negli ambienti politici romani collusi con il potere mafioso: durante un dibattito parlamentare un deputato arriva ad affermare che la mafia non esiste se non come prodotto della fantasia dei “socialcomunisti”. In congedo per malattia, il capitano Bellodi torna a Parma, sua città d’origine, e lì apprende dai giornali che tutta la sua indagine è stata vanificata da una serie di deposizioni che forniscono falsi alibi ai responsabili dei delitti. Don Mariano, trionfante, viene scarcerato. Ma Bellodi non si arrende e manifesta il fermo proposito di tornare in Sicilia. “Mi ci romperò la testa”, sono le sue parole che chiudono il libro.
Nell'incontro con Bellodi, Sciascia fa pronunciare a don Mariano la frase contenente l'espressione idiomatica "quaquaraquà", destinata a divenire celeberrima e collegata nella cultura popolare al mondo mafioso e ai concetti che lo governano:

« Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… »
(don Mariano Arena al capitano Bellodi)

Con i suoi pensieri e con la sua ultima affermazione, Bellodi chiude il romanzo:

« [...] si sentiva come un convalescente: sensibilissimo, tenero, affamato. «Al diavolo la Sicilia, al diavolo tutto». Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. "In Sicilia le nevicate sono rare" pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po' confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia e che ci sarebbe tornato. «Mi ci romperò la testa» disse a voce alta. »

Conclusioni

Sciascia è stato il primo a parlare di mafia in un romanzo e possiamo affermare che grazie a lui noi sappiamo che la mafia c’è.  La mafia è rappresentata come una borghesia parassitaria; il popolo come composto di “ciechi e sordi”.
Solo un altro romanzo avrà lo stesso fortissimo impatto del Giorno della civetta: Gomorra di Saviano. Sciascia fa parlare i documenti che ha consultato e ne costruisce una storia.
Sciascia temeva di essere dimenticato dopo la morte. Impossibile sia per il successo internazionale in vita, sia per la carica innovativa del suo romanzo: un poliziesco all’incontrario. C’è il morto ammazzato, ma non c’è soluzione.

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