Giuseppe Fenoglio detto
Beppe (Alba, 1 marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963) è stato uno scrittore,
partigiano, traduttore e drammaturgo italiano.
Primogenito di tre
figli, Beppe nacque ad Alba nelle Langhe il 1º marzo 1922 da Amilcare, garzone
di macellaio di fede socialista e seguace di Filippo Turati, e da Margherita
Faccenda, donna di forte carattere che ambiva per i suoi figli una vita migliore
della propria. Nel 1928 il padre riuscì a mettersi in proprio, acquistando una
macelleria in piazza del Duomo che gli fornì buoni proventi.
Da bambino, Beppe
frequentò la scuola elementare "Michele Coppino" di Alba e si
dimostrò un bambino intelligente e riflessivo, anche se affetto da lieve
balbuzie. Terminate le scuole elementari, la madre, su consiglio del maestro e
malgrado le persistenti ristrettezze della famiglia, iscrisse il figlio al
Liceo Ginnasio "Govone" di Alba. Successivamente si trasferì per un
breve periodo a Cantello dove visse alcuni anni della sua adolescenza e dove
lavorò nei campi d'asparagi come contadino.
Alunno modello e
appassionato della lingua inglese, fu lettore vorace e iniziò anche alcune
traduzioni, che dovevano rivelarsi le prime di una lunga serie. Al liceo ebbe
come insegnanti professori illustri e per lui indimenticabili, come Leonardo
Cocito, insegnante di lingua italiana, che aderì tra i primi alla Resistenza e
fu poi impiccato dai tedeschi il 7 settembre del 1944, e Pietro Chiodi, docente
di storia e filosofia, grande studioso di Kierkegaard e di Heidegger, in
seguito partigiano, compagno di Cocito stesso, e che invece fu deportato in un
campo di concentramento tedesco.
Nel 1940 si iscrisse
alla facoltà di Lettere dell'Università di Torino, che frequentò fino al 1943,
quando fu richiamato alle armi e indirizzato prima a Ceva (Cuneo) e poi a
Pietralata (Roma), al corso di addestramento per allievi ufficiali.
Dopo lo sbandamento
seguito all'8 settembre 1943, Fenoglio nel gennaio del 1944 si unì alle prime
formazioni partigiane. In un primo momento si aggregò ai "rossi"
delle Brigate Garibaldi, ma presto passò con gli autonomi o badogliani del 1º
Gruppo Divisioni Alpine comandata dal Enrico Martini "Mauri" e della
sua 2ª Divisione Langhe, brigata Belbo, comandata da Piero Balbo
"Poli" ed operante nelle Langhe, tra Mango, Murazzano e Mombarcaro.
Partecipò allo sfortunato combattimento di Carrù e all'effimera esperienza
della Libera Repubblica partigiana di Alba, indipendente tra il 10 ottobre e il
2 novembre 1944.
Alla fine della guerra,
Fenoglio riprese per un breve tempo gli studi universitari prima di decidere,
con grande rammarico dei genitori, di dedicarsi interamente all'attività
letteraria. Nel maggio del 1947, grazie alla sua ottima conoscenza della lingua
inglese, fu assunto come corrispondente estero di una casa vinicola di Alba. Il
lavoro, poco impegnativo, gli permise di contribuire alle spese della famiglia
e di dedicarsi alla scrittura. Morì il 18 febbraio 1963.
Il suo romanzo più
noto, Il partigiano Johnny, fu pubblicato postumo nel 1968.
La malora
Pubblicato nel 1954,
“La malora” è l’opera più matura di Fenoglio sul tema della vita nelle Langhe,
su quel mondo contadino che era stato centrale nei racconti della raccolta “Un
giorno di fuoco”. Emilio Cecchi scriveva nel 1963 che “La malora” e “Una
relazione privata” erano “destinate a rimanere fra le più alte e concrete
espressioni non soltanto dell’arte di Fenoglio ma di tutta la nostra narrativa
del Novecento”. E, indubbiamente, “La malora” è una delle opere più riuscite
del Neorealismo in quanto è la rappresentazione di un mondo di miseria e
violenza “dall’interno”, riprodotto senza il filtro della memoria ed il ricorso
alla mimesi dialettale. L’operazione compiuta da Fenoglio a livello espressivo
e stilistico ha prodotto, infatti, un linguaggio che è la trasposizione
artistica della durezza del mondo narrato e che racchiude tutto il senso
dolente del vivere.
”Avevo appena
sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita
grama; neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino.” Così
Agostino Braida, nell’incipit del romanzo, afferma la propria miseria. Nel
cimitero di San Benedetto Belbo dove è sepolto il genitore, il ragazzo ricorda
i momenti più drammatici della propria esistenza, ma non cede allo sconforto:
con quella durezza del carattere, che è la durezza della terra, Agostino
riconosce l’ineluttabilità della sofferenza e accantona l’idea del suicidio che
gli era balenata in testa (“E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo
e cercarvi un gorgo profondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché m'era subito
venuta in mente mia madre, che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello
che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia”).
La sua esistenza è
colpita dalla “malora” come la sua terra, la collina poco fertile che offre
scarso cibo e richiede il lavoro duro, la lotta per la sopravvivenza che
Agostino ha sperimentato da bracciante al Pavaglione, presso la famiglia di
Tobia Rabino; quando il padre, per un misero compenso, lo cedette al mercato
visto che era il più forte e volenteroso dei suoi tre figli mentre Stafano, il
più grande, era stato chiamato a fare il militare ed Emilio, il più sensibile,
era andato in seminario ad Alba. Al Padiglione i rapporti umani non esistono: è
la violenza, la gerarchia del denaro, la necessità a determinarli; la malora
non risparmia nessuno, nemmeno l’amore. Infatti, quando Agostino incontra Fede,
una ragazza assunta per assistere la padrona malata, gli sembra di ritrovare
l’allegria, la giovinezza che non aveva mai conosciuto ed arriva persino ad
immaginare una vita diversa, ma la ragazza è costretta ad un matrimonio
d’interesse. Agostino non sopporta più di stare al Padiglione e torna a casa:
la terra dei Braida è rimasta pochissima, il lavoro sarà duro ma Agostino non
ha paura, sa che ce la farà.
Una questione privata
Pubblicato postumo nel
1963, rimasto incompiuto, “Una questione privata” suggella tutta la produzione
narrativa di Beppe Fenoglio ispirata alla Resistenza, specchio del dolente e
tragico senso del vivere dell’autore. Più che la componente politica ed
ideologica, egli infatti approfondisce la tematica esistenziale incentrando la
storia sull’amore, sentito come struggente disperazione, e dà della Resistenza
una rappresentazione vera, priva di intenti celebrativi o moralistici: è la
realtà della morte, della violenza, del caso, degli individui. Come scriveva
Calvino nella prefazione a “Il sentiero dei nidi di ragno” (1971), “Una
questione privata” è un libro “costruito con la geometrica tensione d’un
romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando Furioso,
e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori,
vera come non mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla
memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti,
e la commozione, e la furia”.
Milton è un giovane
partigiano che, tornato nei pressi di Alba per un’azione, rievoca l’incontro
con Fulvia, la ragazza torinese che aveva conosciuto due anni prima, e ricorda
l’amore che aveva sentito germogliare, tra letture e musica, nella villa della
famiglia di lei che ora è abbandonata. Appreso dalla custode che la giovane era
solita incontrare Giorgio, loro comune amico, Milton sprofonda nell’angoscia,
per l’amore di Fulvia, per l’amicizia di Giorgio, che forse l’hanno tradito, e
sente il bisogno ossessivo di conoscere la verità. E’ così che, tra la nebbia
della Langhe, tra il fango, Milton inizia la propria ricerca disperata e scopre
che Giorgio è stato catturato dai fascisti ad Alba; organizza allora uno scambio
facendo prigioniero un sergente fascista, ma è poi costretto ad ucciderlo.
Determinato, ossessionato dal bisogno d’amore, turbato dallo spettro del
tradimento, Milton non si rassegna e ritorna alla villa nella speranza di
incontrare Fulvia; s’imbatte invece in una colonna fascista che lo costringe ad
una fuga disperata, in lotta con la natura e per la sopravvivenza, fino a
crollare (“Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a
un metro da quel muro crollò”).
Il partigiano Johnny
“Alba la prendemmo in
duemila il 10 ottobre e la perdemmo in duecento il 2 novembre del 1944.”
Romanzo avventuroso,
d’azione e di passioni, “Il partigiano Johnny” - pubblicato postumo,
incompiuto, nel 1968 - è una delle rappresentazioni più originali e riuscite
della Resistenza.
La cifra poetica
dell’autore eleva a paradigma esistenziale ed universale l’esperienza storica e
personale della lotta partigiana.
Johnny è uno studente
di Alba che aderisce alla Resistenza dopo l’8 settembre 1943 (“Partì verso le
somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto
possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è
nella sua normale dimensione umana”) e vive la lotta come una scelta assoluta,
si sente un “partigiano in aeternum” che combatte contro un nemico assoluto. E’
significativo che Johnny militi prima tra i partigiani Rossi e poi tra gli
Azzurri: la sua scelta non è ideologica, bensì esistenziale. Così anche le
lusinghe dell’amore gli appaiono un’inutile distrazione, un tradimento della
causa e la passione per Elda è solo passeggera. Il suo mito è il comandante
Nord, che crede nella buona guerra e sa incitare i compagni. In seguito alla
disfatta di Alba, Johnny andrà addirittura incontro alla morte, ignorando gli
ordini dei superiori, in una pericolosa ed inutile imboscata alla vigilia della
Liberazione, per fedeltà verso i suoi vecchi compagni. L’avventura del
protagonista è quella della guerra, ma è pure quella dell’uomo che cerca se
stesso attraverso lo scontro con la violenza, con il dolore, con la morte.
Johnny è solo, ha rifiutato l’ambiente familiare borghese e non sa più trarre
giovamento nemmeno dalla comodità di un letto; la sua vita, e la sua morte,
hanno senso solo tra i boschi in cui ha combattuto, tra quegli alberi che
Fenoglio ha reso umani riflettendovi i sentimenti degli uomini.
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