lunedì 14 gennaio 2013

Elio Vittorini

(Siracusa 1908 - Milano 1966)
Figlio di un ferroviere, interrompe gli studi tecnici e, nel ‘24, va via dalla Sicilia per lavorare, come edile, nella Venezia Giulia.
Inizia a collaborare, sin dal 1927, a varie testate; poi, entra in contatto con il gruppo di “Solaria”, per la quale pubblica il suo primo racconto. Nuovamente sulla rivista fiorentina, appare a puntate il suo romanzo d’esordio, “Il garofano rosso” (1933-34), ma le uscite vengono interrotte dalla censura.
Nel 1938 si trasferisce a Milano: le proprie posizioni politiche, dall’iniziale “fascismo di sinistra”, divengono di radicale opposizione al regime, ciò che lo conduce nel 1945 ad iscriversi al PCI. Intanto, “Letteratura” comincia a pubblicare, a puntate, “Conversazione in Sicilia” (1941), per molti la sua opera più importante.
Dopo aver preso parte attiva alla Resistenza, nel ‘45 fonda “Il Politecnico” e ingaggia una battaglia per liberare la letteratura da ogni funzione servile nei confronti dei partiti. Mentre scrive diversi altri romanzi (“Uomini e no”, 1945; “Il Sempione strizza l’occhio al Frejus”, 1947; “Le donne di Messina”, 1949), prosegue nell’attività editoriale: per Einaudi inventa, nel 1951, la collana de “I gettoni”, ove propone testi di Fenoglio, Tobino, Ottieri, etc. Nel 1957 compare “Diario in pubblico”, che vede raccolti suoi interventi militanti e politico-culturali; nel ‘59 dà vita, assieme a Italo Calvino, a “Il Menabò”, in cui s’avvia il dibattito sullo sperimentalismo letterario degli anni ‘60. Successivamente, si dedica alla direzione di collane editoriali per la Mondadori; il suo lungo silenzio creativo è, infine, interrotto dall’uscita postuma de “Le città del mondo” (1969), frutto d’una complessa gestazione principiata negli anni ‘50, da annoverarsi tra i suoi lavori più significativi. La posizione di rilievo che Vittorini occupa nella scena letteraria nostrana gli deriva non soltanto dal valore suo di scrittore; fondamentale, infatti, è il ruolo che egli ha rivestito nell’ambito del dibattito culturale dell’epoca.
Se certe cose sue, infatti (per dirne una, “Uomini e no”), paiono oggi risentire del tempo trascorso, egli è certo un intellettuale che ha dialogato con la storia, con la politica, con l’industria assumendosi tutte le sue responsabilità e cercando di contrastare o favorire e di combattere o di proporre a partire da convinzioni profonde e radicate.
Non è un merito secondario: nel desolante scenario odierno, ad esempio, una simile funzione nessuno ha più desiderio di svolgerla. Laddove di un Vittorini - di tanti Vittorini - ci sarebbe, davvero, un gran bisogno.



Il garofano rosso

Scritto negli anni ’30 e pubblicato nel 1948, “Il garofano rosso” è tra le opere più riuscite di Vittorini.
Alessio Mainardi è un liceale siciliano di sedici anni, inquieto e ribelle. All’iniziale adesione alla politica con la creazione della “Cava” insieme all’amico Tarquinio, che partecipa alla protesta antiborghese fascista, il ragazzo preferirà l’amore con i suoi molti misteri. Dall’indimenticabile bacio con la diciottenne Giovanna che gli regalò un garofano rosso e gli spezzò il cuore alla passione sensuale per Zobeida, una prostituta che non potrà ricambiare il suo amore, Alessio avanza a fatica verso la maturità e la libertà interiore.
Romanzo di formazione appassionato, racconta la presa di coscienza di un adolescente che matura attraverso l’avventura sentimentale e politica, sperimentando anche rivolta e violenza.
Sono i tempi dello squadrismo fascista in cui s’identifica la ribellione piccolo borghese, sono i tempi del delitto Matteotti, è la Sicilia di sempre.
Il quadro storico è tratteggiato da Vittorini con un linguaggio che alterna realismo e lirismo perché un linguaggio prettamente realistico “non riesce ad essere musica e ad afferrare la realtà come insieme anche di parti e di elementi in via di formazione”.


Conversazione in Sicilia

Pubblicato tra il 1938 e il 1939 su “Letteratura” ed in volume nel 1941, “Conversazione in Sicilia” è “il” libro in cui si realizza in modo più alto la disposizione lirico – narrativa dell’autore, che prende spunto dalla guerra di Spagna per elevare il momento contingente d’oppressione e miseria a simbolo.
Agitato da astratti furori per “il genere umano perduto” Silvestro Ferrato, in seguito ad una lettera del padre che gli confessa di aver lasciato la madre per un’altra donna, decide di prendere un treno da Milano per tornare nel paese natale, in Sicilia.
Il ritorno alla terra d’origine, sentita come mitica, trasfigura il passato in presente e viceversa, attraverso la coscienza universale del dolore per il mondo offeso. Tra fichidindia e montagne sperdute, la “piccola Sicilia ammonticchiata di nespoli e tegole” soffre, per la fame o per le malattie; soffre la madre Concetta, soffre il Gran Lombardo, portavoce di “nuovi alti doveri” che spettano agli uomini, soffre l’arrotino Calogero. E’ il dolore perenne del mondo che anima le pagine forse più sentite dell’autore, attraverso la suggestione di una parola che si fa poesia.




Uomini e no

Pubblicato nel 1945, “Uomini e no” è probabilmente il primo romanzo della Resistenza.
Scritto a caldo, sulla base della Resistenza a Milano nel periodo più violento, dopo il settembre del 1943, il romanzo testimonia la ricerca dell’autore di nuovi moduli espressivi che concilino il bisogno di realtà, di attenersi ai fatti per raccontare la lotta accanita e fatale, e - allo stesso tempo - di guardarli con l’occhio del poeta che scandaglia gli animi con passione.
L’invenzione dello “spettro - scrittore”, che interrompe la narrazione e la commenta nei capitoli in corsivo, costituisce degli spazi di meditazione lirica affini ai cori della tragedia greca, controcanto della vicenda.
Enne 2, personaggio tormentato, intellettuale e partigiano, rappresenta la volontà di resistere secondo la filosofia della vecchia Selva, la compagna che potrebbe essere sua madre: “Non possiamo desiderare — chiede Selva — che un uomo sia felice? Noi lavoriamo perché gli uomini siano felici. Non è per questo che lavoriamo? […] Avrebbe un senso il nostro lavoro?”.
Tuttavia l’autore non celebra la Resistenza, ma dissemina nel racconto dubbi ed incertezze sul senso della morte, sulla non umanità che fa parte dell’uomo e genera il deserto “non di una vita che manca, ma di una vita che non è tale”, sull’essere appunto “uomini e no”.
E’ il caso di Enne 2 che, dovendo rinunciare all’amore di Berta perché è una donna sposata, non è un uomo, come non lo sono tutti coloro che vivono con delle etichette, dei ruoli che imprigionano e negano l’esistenza. Perciò Enne 2 auspica una liberazione di “ognuno nella sua vita” e, pur condannandosi alla disperazione, affida alle pause liriche un mondo altro, in cui lui e Berta si conoscono fin dall’infanzia e possono vivere il loro amore.




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