lunedì 14 gennaio 2013

Cesare Pavese




(S. Stefano Belbo, Cuneo, 1908 - Torino, 1950)
Nato da una famiglia piccolo-borghese d’origini contadine, orfano di padre ad appena sei anni, compie gli studi medi ed universitari a Torino, laureandosi con una tesi sulla poesia di Walt Whitman.
Fondatore nel ‘33 - con Carlo Levi, Massimo Mila, Leone Ginzburg ed altri - della casa editrice Einaudi, dal 1934 direttore della rivista “Cultura”, trascorre poi un anno al confino pel suo coinvolgimento in attività antifasciste.
Tornato a Torino, pubblica la sua prima raccolta di versi (“Lavorare stanca”, 1936) e continua nell’attività di traduzione di scrittori americani.
Nella narrativa, debutta col romanzo - assai lodato dalla critica - “Paesi tuoi” (1941), già catalogo di temi ed atteggiamenti che verranno sviluppati nelle opere successive: la solitudine (“tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri” annota ne “Il mestiere di vivere”, il diario uscito postumo nel 1952), il contrasto insanabile città-campagna, le suggestioni della letteratura statunitense.
In seguito, diverrà centrale il mito del ritorno all’infanzia, alle colline, al mare: ne “La spiaggia” (1942), nei tre racconti racchiusi ne “La bella estate” (1949), nel capolavoro “La luna e i falò” (1950), esso è esposto con intensità e struggimento.
Nell’ultimo lavoro, in particolare, il personaggio di Anguilla - ritornato dall’America, ov’era emigrato in cerca di fortuna, alle natie Langhe - verifica con dolore quanto il presente abbia vetrioleggiato il passato: sparite le persone, cambiati i luoghi, cancellata finanche la dolcezza dei ricordi (i falò d’un tempo, mutatisi da rito propiziatorio a simbolo di orrori od ingiustizie), è costretto a constatare che “crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com’era adesso”. Un’ammissione di fallimento dalle manifeste connotazioni autobiografiche, destinata pochi mesi dopo a tradursi in un disperato gesto suicida.
Una vocazione lirico-evocativa è riscontrabile in misura differente nei testi, si tratti d’una presa di coscienza (“Il compagno, 1947), dell’incapacità di coinvolgersi d’un ritroso intellettuale (“La casa in collina”, 1948) o dell’analisi dei miti fondanti di tutti i libri in chiave antropologico-psicoanalitica (“I dialoghi con Leucò”, 1947).
Simbolo tragicamente irrisolto dell’impegno politico (la sua militanza nel PCI) e del disagio esistenziale, Pavese resta uno tra gli scrittori più amati del dopoguerra, figura nodale d’un ventennio - quello che va dal ‘30 al ‘50 - tra i più vividi ed intensi della vicenda letteraria e culturale indigena.



La luna e i falò

Ultimo romanzo di Pavese, scritto fra il settembre ed il novembre del 1949 e pubblicato nell’aprile del 1950, quattro mesi prima del suicidio, “La luna e i falò” riunisce i temi tipici dell’autore: il ritorno, la fuga, il contrasto città – campagna, il sogno americano, la morte, fusi in uno stile perfetto, frutto d’anni di ricerca, in cui italiano e dialetto sono mirabilmente associati. E così, riuscito è il dialogo, che tiene insieme passato e presente; e così il tempo, che è quello del ricordo del protagonista, e si fonde con il paesaggio. Opera in cui le vicende narrate s’intrecciano con la storia della guerra e della Resistenza, è il capolavoro ed il testamento spirituale dell’autore.
Anguilla è un orfano cresciuto nelle Langhe, che, fatta fortuna al di là dell’oceano, nella lontana America, ritorna ai luoghi dell’infanzia e della giovinezza. Qui ritrova l’amico d’un tempo, Nuto, e conosce il giovane Cinto, figlio di Valino, in cui rivede se stesso. Il passato, nel ricordo d’Anguilla, corre parallelo al presente, in estesi flash-back attraverso i quali l’uomo rivive gli anni della giovinezza, trascorsi a servizio alla “Mora”. Ora come allora, le Langhe sono una terra difficile in cui si vive di stenti, tra la rabbia ed il rischio della follia, che Valino incarna con la sua foga distruttiva: in una sola notte, darà fuoco alla casa ed ucciderà tutta la sua famiglia.
Falò e crepe nella terra gli ricordano il mito greco.


La bella estate

Pubblicato nel 1949, “La bella estate” è incentrato sul tema simbolico dell’iniziazione alla vita, della perdita dell’innocenza attraverso il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ginia è una giovane che lavora presso una sarta, dove scopre un mondo diverso dal suo, popolato dai pittori della Torino degli anni '40. Introdotta dall’amica Amelia, che fa la modella, Ginia incontra Guido e subito se ne innamora. Nonostante lui non la ami, la ragazza si trasferisce nella sua soffitta-studio, ma la vita ha in serbo una tragica sorte: Ginia, ammalata di sifilide, si affida alle cure d’Amelia con un’ultima battuta: "Conducimi tu".
Romanzo profondo ed intenso, che mette in scena lo scontro tra purezza e corruzione, incarnate dalle due protagoniste femminili, “La bella estate” sottolinea l’ambiguità del male, che, come la morte, attrae; così il personaggio di Amelia, per quanto negativo, risulta, fino all’ultimo, invitante.


La casa in collina

Pubblicato nel 1949, “La casa in collina” è forse l’opera più autobiografica di Pavese. Romanzo sulla guerra, che distrugge e che finisce solo per chi muore, perché

“se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccende altrui, non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei morti tenga noialtri inchiodati a vederli e a riempircene gli occhi."

Corrado è professore di scienze, sfugge alla guerra rifugiandosi in collina, perché la collina è un aspetto delle cose, un modo di vivere. Qui è ospite d’Elvira, che lo ama segretamente e non corrisposta; Corrado, addirittura, la disprezza e, appena può, si reca all’osteria “Alle Fontane”, dove incontra molti sfollati, giovani e vecchi, tra cui Cate, la donna che ha amato da ragazzo ed abbandonato ingiustamente. Ritrovarla ora, forte, determinata antifascista, madre di un ragazzo, Dino, che potrebbe essere suo figlio, turba profondamente Corrado.
Il giovane incarna tutto quello che lui avrebbe potuto essere; ora vorrebbe occuparsene, essere l’uomo e il padre che non è stato: ma Cate cadrà prigioniera dei tedeschi e Dino fuggirà, preso dalla smania della guerra e dell’azione, destinato a perdersi nel nulla. E Corrado non si salverà dalla propria inettitudine.


Il diavolo sulle colline

Pubblicato nel 1949, “Il diavolo sulle colline” narra le tensioni e le debolezze dell’adolescenza, la difficoltà dell’azione per gli animi sognatori, la noia delle giornate sempre uguali.
Romanzo costruito sul dialogo, segna il passaggio dell’autore da uno stile legato al monologo a nuove idee di narrazione, nelle quali il paesaggio stesso diventa personaggio.
Tre giovani amici, Oreste, Pieretto e il narratore, studiano a Torino e passano le serate a vagare per la città o sulla collina. Qui, una sera, incontrano una macchina, con dentro una persona che sembra svenuta, se non addirittura morta.
In realtà si tratta di Poli, un individuo che conduce un’esistenza completamente diversa dalla loro, in preda agli effetti della droga. Con l’arrivo dell’estate, i ragazzi lasciano la città e si trasferiscono a casa d’Oreste, nelle Langhe, giusto accanto a quella di Poli, che vive in collina insieme alla moglie Gabriella. L’uomo incuriosisce i tre giovani con le sue conversazioni sulla droga, descrivendola come la sostanza che dà la vera capacità di giudizio. Nel frattempo Oreste ha una relazione con Gabriella, che, però, è sempre innamorata del marito. Nel tornare a Torino, i ragazzi si sentiranno cambiati.

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