mercoledì 16 gennaio 2013

Italo Svevo



Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nasce a Trieste, nel 1861. Nel 1880, a causa di dissesti economici familiari, è costretto ad impiegarsi in una banca, dove lavora per circa un ventennio.
Il 1892 è l’anno in cui esordisce nel romanzo con “Una vita”, che passa totalmente inosservato: sorte non migliore tocca, nel 1898, a “Senilità”. Deluso dall’accoglienza riservata ai suoi scritti,  egli sceglie di chiudersi in un silenzio destinato a durare a lungo.
Nel 1899, dopo il matrimonio con Livia Veneziani, entra come socio nella ditta commerciale del suocero. E’ del 1905 l’inizio della sua frequentazione con James Joyce, che a Trieste vive insegnando l’inglese. Nel 1923 esce “La coscienza di Zeno”, che Joyce fa conoscere all’italianista Valéry Larbaud ed è positivamente recensito nel 1925 da Montale. E’ il preludio al pieno riconoscimento della statura dello scrittore. Nel 1928Svevo muore per un incidente d’auto.
“Un inetto”, avrebbe dovuto essere il primo titolo di “Una vita”: e inetti appaiono i protagonisti dei tre grandi romanzi sveviani. L’Alfonso Nitti di “Una vita”, l’Emilio Brentani di “Senilità”, lo Zeno Cosini de “La coscienza di Zeno” sono, in primo luogo, incapaci ad affrontare la realtà: soprattutto i primi due (ché in Zeno la coscienza della propria inadeguatezza è lucida, egli è in grado di diagnosticare la propria malattia morale ed è consapevole degli artifizi ai quali fa ricorso per sfuggire ad essa) eludono sistematicamente la realtà, ingannano se medesimi per evitare di registrare la propria sconfitta.
Sotto il profilo stilistico, partendo da moduli veristici  e naturalistici (derivanti dai grandi scrittori della tradizione realistica: Balzac, Flaubert, Maupassant), Svevo si sposta progressivamente verso una forma narrativa che - sulla scorta delle intuizioni di Freud, l’opera del quale il Nostro ha ben presente - frantuma i piani temporali e sposta la rappresentazione dalla visione “oggettiva” del narratore a quella “soggettiva” del protagonista.
Non siamo lontani dal “flusso di coscienza” joyciano: ed è proprio questa originalità che fa di Svevo l’autore nostrano che meglio s’inserisce - assieme a Pirandello - nella schiera dei maggiori del ‘900 europeo, tra Joyce e Proust, Musil e Kafka.



Una vita

È il primo romanzo di Italo Svevo.

Il protagonista è Alfonso Nitti, giovane colto che vive in ristrettezze economiche ed è costretto a trasferirsi dall’amato paese natale in città, per lavorare presso la banca Maller. Tormentato dalla nostalgia per la sua terra ed oppresso dal lavoro, Alfonso trova conforto solo nelle visite in casa Maller, soprattutto in virtù dell’amicizia con la figlia del principale, Annetta, che gli propone la stesura di un romanzo a quattro mani e conquista rapidamente il suo cuore. Costretto a separarsi dalla giovane a causa della lunga malattia e successiva morte della madre, al suo ritorno Alfonso scopre con sgomento che Annetta si è fidanzata con il cinico cugino Macario. Sconvolto, egli chiede alla ragazza un ultimo appuntamento, ma al posto di Annetta si presenta il fratello Federico. Sottrattosi al duello, Nitti sceglie come estrema soluzione il suicidio.

Il romanzo, che doveva intitolarsi "Un inetto", è la storia di un uomo solo, scisso dalla società ed incapace di accettarne le regole. Il tentativo di uscire dal proprio isolamento si rivela fallimentare ed evidenzia l'esistenza di un confine invalicabile tra il mondo dell'alta borghesia capitalista e l'universo piccolo borghese. 
Alfonso Nitti è un antieroe che vive continuamente in bilico tra il desiderio di affermarsi, le velleità letterarie, la consapevolezza della propria superiorità rispetto al mondo esterno ed un’innata incapacità ad agire. Ogni tentativo si rivela vano perché Alfonso rimane sempre uguale a se stesso; anche il gesto estremo del suicidio non ha niente d’eroico, rappresentando bensì l’ennesimo compito svolto meccanicamente. 
Negli anni del superuomo di D'Annunzio, Italo Svevo crea un personaggio la cui inettitudine non possiede alcunché di nobile, essendo causa primaria della sua marginalità. La stessa Trieste, che in quegli anni viveva uno straordinario fervore culturale per il suo ruolo di ponte tra mondo latino e Mitteleuropa, si riduce ad una città squallida e grigia, specchio della debolezza del protagonista.


Senilità

“Senilità” racconta la storia di Emilio Brentani, un impiegato trentacinquenne con velleità letterarie, che cerca di sfuggire alla monotonia ed al grigiore della propria esistenza piccolo borghese attraverso un'avventura amorosa con Angiolina, avvenente giovane di estrazione proletaria. Quella che doveva essere una semplice parentesi si trasforma in condanna alla più disperata gelosia, al tormento d'amore a causa dei ripetuti tradimenti della ragazza. Emilio cerca conforto nell'amico Stefano Balli, scultore di successo e gran rubacuori, che diventerà suo antagonista perché la stessa Angiolina finirà con l'innamorarsene e perché travolgerà in una passione intensa ma soffocata per moralismo la sorella Amalia, dolce zitella bruttina.

Emilio Brentani, nevrotico e insicuro, vive la propria esistenza "in difesa", in una condizione di rarefazione senza slanci vitali: di senilità, appunto, con un approccio al mondo filtrato dai libri più che figliato dall'esperienza diretta.
Intellettuale in difficoltà davanti al crollo di valori della borghesia, egli si nasconde dietro una falsa rappresentazione di se stesso per evitare una penosa consapevolezza. Così, idealizza Angiolina Zarri in quanto rappresenta la salute, la potenza dell'eros, la carica vitale, ignorando i limiti d’una personalità rozza, ignorante, insensibile, bugiarda.
Il romanzo, basato sul sapiente uso del discorso libero indiretto che ben rende l’analisi psicologica, è la cronaca interiore della vicenda amorosa di Emilio, dall’incontro con Angiolina fino alla tardiva liberazione; quando, morta la sorella, ormai vittima dell'etilismo, dopo una delirante agonia egli trova il coraggio di lasciare la ragazza, fuggita nel frattempo col cassiere infedele d’una Banca.



La coscienza di Zeno

Pubblicato nel 1923, “La coscienza di Zeno” è un romanzo in prima persona che rompe con tutta la tradizione letteraria italiana: incentrato sull’analisi del subconscio, il racconto è la confessione autobiografica di Zeno Cosini, scritta su consiglio dello psicoterapeuta, il dottor S., il quale - come afferma nella lettera/prefazione del romanzo - decide di pubblicare il memoriale per vendicarsi del paziente che ha interrotto improvvisamente la cura.
Il racconto - narrato entro un tempo "misto", dai confini vaghi - di "tante verità e bugie" lascia spesso il dubbio su quanto corrisponde a realtà e quanto, al contrario, è frutto di fantasiose e consolanti menzogne (Cosini spesso si contraddice).
Spesso è presente il monologo interiore. I fatti non si susseguono cronologicamente, né secondo uno schema lineare: spesso il passato si confonde col presente nell'esposizione frantumata della memoria, attraverso esperienze cruciali che danno il titolo alle sei sezioni del romanzo (Il Fumo, Morte del Padre, Il Matrimonio, Moglie ed Amante, Un’associazione, Psico-Analisi), precedute da una prefazione ed un preambolo in cui il protagonista cerca di far emergere le immagini della prima infanzia. Inetto più maturo rispetto ad Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, Zeno ha una dimensione psicologica maggiormente ricca, data dalla consapevolezza lucida della propria malattia morale e del meccanismo di giustificazioni ed alibi cui è solito ricorrere. Così Svevo rappresenta la crisi dell’essere umano - incapace di instaurare un rapporto positivo con la realtà - e demistifica gli inganni della società borghese capitalistica.
Il romanzo rappresenta una rottura con il romanzo tradizionale, è un anti-romanzo.

Giovane incostante ed arrendevole, Zeno passa da una facoltà universitaria all’altra senza mai laurearsi, schiavo del fumo, vizio e malattia che segna tutta la sua esistenza, ultima sigaretta dopo ultima sigaretta.

La conseguente frustrazione ed il conflitto con il padre culminano nello schiaffo inflittogli dal genitore in punto di morte, definitiva ed estrema punizione davanti alla quale il figlio non ha più possibilità di giustificarsi.

Il trauma porta Zeno a cercare una figura paterna sostitutiva, quella di Giovanni Malfenti, abile uomo d’affari che egli adotta come padre-suocero impalmando una delle sue figlie, Augusta, la più brutta di tre sorelle, l’unica che accetta la proposta rifiutata dalle altre.

Pur non avendola mai voluta, Zeno si sorprende ad amarla e a desiderare la sua “salute”; suo malgrado si ritrova, però, coinvolto in una relazione adulterina con la cantante Carla Greco, dimostrazione del proprio inconsapevole diniego a diventare sano.

Antagonista di Zeno è Guido Speier, il cognato che ha sposato l’avvenente Ada, il campione di “salute” destinato, però, al fallimento finanziario ed all’involontario suicidio.

Sarà paradossalmente Zeno, malgrado la sua inettitudine, a recuperare le perdite di Guido giocando in borsa, ma paleserà i propri sentimenti di odio verso il cognato arrivando in ritardo ai suoi funerali e sbagliando, per giunta, corteo funebre.

Nel capitolo conclusivo Zeno, in seguito alla guerra, racconta di sentirsi pienamente guarito grazie ai successi commerciali raggiunti ed alla constatazione che la malattia è condizione d’ogni uomo.

Identificando il progresso umano nella creazione di ordigni - comprese le idee - che impediscono la soddisfazione delle più intime esigenze, auspica un’enorme esplosione che riporti la Terra allo stato di nebulosa e consenta agli uomini di ritrovare l’armonia.



Umberto Saba



Umberto Saba, pseudonimo di Umberto Poli (Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957), è stato un poeta, scrittore e aforista italiano. Umberto Saba nacque il 9 marzo 1883 a Trieste - allora parte dell'Impero austro-ungarico - da madre ebrea, Felicita Rachele Cohen e da Ugo Edoardo Poli, di nobile famiglia veneziana e agente di commercio. Quando nacque Umberto, Felicita era già stata abbandonata dal marito, un giovane «gaio e leggero», insofferente dei legami familiari.
Visse una malinconica infanzia, velata dalla mancanza del padre. Venne allevato per tre anni dalla balia slovena Peppa Sabaz, definita «madre di gioia». Sarà in suo onore, e in onore delle radici ebraiche materne, che il poeta sceglierà lo pseudonimo di Saba. Quando la madre lo rivolle con sé, il poeta ebbe il suo primo trauma. Crescerà quindi con la madre e due zie, una vedova e l'altra nubile, impegnate nella conduzione di una bottega di mobili ed oggetti usati.
Nel 1903 si trasferì a Pisa per frequentare l'università.
Nell'estate del 1904, a causa di un litigio con l'amico Chiesa, cadde in forte depressione e decise di ritornare a Trieste.
In seguito lasciò Trieste per recarsi a Firenze.
Essendo cittadino italiano, pur abitando nell'Impero austro-ungarico, nell'aprile del 1907 partì per il servizio militare destinato a Salerno. Nasceranno da questa esperienza i Versi militari.
Nel maggio 1913 il poeta si trasferì con la famiglia dapprima a Bologna.
 Nel periodo della prima guerra mondiale si dedica alla lettura di Nietzsche e si assiste a un riacutizzarsi delle crisi psicologiche, per le quali, nel 1918, verrà ricoverato nell'ospedale militare di Milano.
Terminata la guerra e ritornato a Trieste, dopo aver fatto per parecchi mesi il direttore di un cinematografo del quale era proprietario suo cognato e scritto alcuni testi pubblicitari per la Leoni Films, rilevò la libreria antiquaria Mayländer. Fra il 1929 e il 1931, a causa di una crisi nervosa più intensa delle altre, decise di mettersi in analisi a Trieste con il dottor Edoardo Weiss, lo stesso di Italo Svevo. Fu Weiss, allievo di Freud, che con la Rivista italiana di psicoanalisi introdusse in Italia gli studi del medico viennese. Con lo psicanalista, Saba indagò la sua infanzia, e rivalutò il ruolo della sua nutrice.
Nel 1938, poco prima del secondo conflitto mondiale, a causa delle leggi razziali, fu costretto a cedere formalmente la libreria al commesso Carlo Cerne e ad emigrare in Francia, a Parigi. Ritornato in Italia alla fine del 1939, si rifugia prima a Roma, dove Ungaretti cerca di aiutarlo, ma senza risultato, e poi nuovamente a Trieste, deciso ad affrontare con gli altri italiani la tragedia nazionale.
Dopo l'8 settembre 1943 fu però costretto a fuggire con Lina e la figlia Linuccia, e a nascondersi a Firenze, cambiando spesso appartamento. Gli sarà di conforto l'amicizia di Montale che, a rischio della vita, andrà a trovarlo ogni giorno nelle case provvisorie, e quella di Carlo Levi.
Negli anni del dopoguerra Saba visse per nove mesi a Roma e poi a Milano dove rimase per circa dieci anni, tornando periodicamente a Trieste. Nel 1955, stanco e malato, e sconvolto per la malattia della moglie, si fece ricoverare in una clinica di Gorizia, dalla quale uscì solo in occasione del funerale della moglie, mancata il 25 novembre 1956. Saba muore nove mesi dopo, il 25 agosto 1957.
Pur essendo considerato tra i maggiori poeti del Novecento, Saba è molto difficilmente classificabile all'interno di correnti letterarie. Lo stile "umile" che lo caratterizza, l'amore conflittuale per la propria città, l'autobiografismo sincero, il senso della quotidianità, sono però caratteristiche a lui generalmente riconosciute, insieme a un tono profondamente malinconico.
Paziente di Edoardo Weiss, e talvolta fortemente oppresso da sofferenze psichiche, a livello critico è indicato un suo senso tormentato di fragilità interiore, all'interno però di un "registro colloquiale" che comunque appartiene anche alla tradizione della letteratura italiana.
La poesia di Saba è semplice e chiara. Nella forma adopera le parole dell'uso quotidiano e nei temi ritrae gli aspetti della vita quotidiana, anche i più umili e dimessi: luoghi, persone, paesaggi, animali, avvenimenti, Trieste con le sue strade, le partite di calcio ecc. I temi della sua poesia sono Trieste, la città natale, il mare come simbolo di fuga e di avventure spirituali, gli affetti personali e familiari (principalmente Lina, la moglie, e Linuccia, la figlia), le memorie dell'infanzia, il rapporto con la natura e le riflessioni sull'attualità.
Il Canzoniere è progettato secondo il disegno di un itinerario poetico che segue fedelmente quello della vita dell'autore: «E il libro, nato dalla vita, dal "romanzo" della vita era esso stesso, approssimativamente, un piccolo romanzo. Bastava lasciare alle poesie il loro ordine cronologico; non disturbare, con importune trasposizioni, lo spontaneo fluire e trasfigurarsi in poesia della vita». Sono parole di Saba.
Il Canzoniere come si presenta nella sua versione definitiva del 1961 appare diviso in tre parti, che si rifanno all’idea di una scansione cronologica, riferendosi alla giovinezza, alla maturità e alla vecchiaia dell’autore. Ogni sezione del Canzoniere può essere considerata come un’opera compiuta in se stessa.

A mia moglie

Saba compose questa lirica nel 1911 e la giudicò fin da subito la propria poesia più bella. In essa l'amore per la moglie Lina si esprime in modo davvero insolito, attraverso una serie di paragoni con le femmine di alcuni animali: la gallina, la giovenca, la cagna, la coniglia, la rondine, la formica, l'ape. La stessa moglie del poeta in un primo tempo si sentì quasi offesa di tali accostamenti; in realtà il componimento è pervaso da un sentimento di intensa tenerezza e dolcezza, accentuate entrambe da un tono apparentemente ingenuo, quasi infantile. Il poeta guarda al mondo della natura nei suoi aspetti quotidiani con occhi semplici, avvertendo in essa le migliori qualità e la condizione di maggiore vicinanza a Dio.

Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.

La struttura

La poesia è scandita sul ritmo delle sei strofe: le prime cinque svolgono ciascuna un paragone tra la moglie del poeta e una femmina di animale, mentre l'ultima strofa contiene il riferimento a due animali, la formica e l'ape. La struttura del componimento è circolare, poiché la chiusa riprende i versi della prima strofa: evidentemente è a questi versi che il poeta affida il cuore del proprio messaggio.
Le strofe si snodano attraverso una serie di parallelismi. A questi parallelismi si susseguono molteplici similitudini.

L'andamento della poesia dà alla stessa una cadenza da inno religioso. Il collegamento al divino è esplicitato nella prima e ultima strofa, quelle più impresse di significato dal poeta, dove Saba canta la moglie come creatura capace di avvicinare a Dio, cioè all'essenza e all'origine stessa della vita. La donna è il tramite fra l'uomo e Dio e capace di elevare l'anima dell'uomo che la ama.

Lina, moglie di Saba, ha pertanto il portamento eretto e superbo della gallina, e il vento le arruffa i capelli come le piume alla gallina; quando si lamenta, la sua soave e triste voce si avvicina al chiocciare nei pollai. Il paragone con la giovenca allude invece alla sua componente materna, lieta e festosa, affettuosa e nello stesso tempo un po' triste. Della cagna Lina ha la devozione incondizionata, un amore tenace per il suo uomo, che, però, la rende gelosa di chi lo avvicina. Come la coniglia, Lina si allieta degli atti di gentilezza e di cura a lei rivolti, mentre si chiude in se stessa se è abbandonata; appare quasi indifesa, con la sua generosità totale, mite e inerme, pari a quella della coniglia. La moglie è colei che, come la rondine, fa tornare la primavera nella vita triste e vecchia del poeta; ma diversamente dall'uccello migratore, ella non abbandona la casa, poiché è fedele. E' inoltre previdente come la formica e laboriosa e instancabile come l'ape.

martedì 15 gennaio 2013

Eugenio Montale



Nasce a Genova nel 1896 da un’agiata famiglia borghese. Pur frequentando scuole tecniche, coltiva interessi letterari, studia musica e canto e presto si dedica completamente alla poesia e alla letteratura.
Tornato a Genova dopo la guerra, durante la quale è stato ufficiale al fronte, frequenta gli ambienti letterari e conosce fra gli altri Italo Svevo, di cui apprezza, per primo in Italia, l’opera e lo stile.

Nel 1925 pubblica il suo primo libro di versi, Ossi di seppia, e si trasferisce a Firenze, dove collabora a importanti riviste letterarie. Nel 1929 è nominato direttore della biblioteca del Gabinetto Visseux di Firenze, ma nel 1938 perde il posto per il suo impegno antifascista e vive grazie a collaborazioni editoriali e traduzioni di testi letterari.

La sua seconda raccolta, Le occasioni, lo conferma esponente di spicco della nuova poesia italiana.
Dopo la guerra Montale si iscrive al Partito di azione, ma la sua esperienza politica è breve; ben presto si dedica al giornalismo, collaborando al "Corriere della Sera", e nel 1967 è nominato, per i suoi meriti letterari, senatore a vita. 

Negli anni Sessanta e Settanta pubblica altre importanti raccolte di poesie, fra cui Satura, dedicata alla moglie morta. Nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura. Nel discorso tenuto in occasione della consegna del premio Nobel Montale dice:"...io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà".
Muore a Milano, dove si era trasferito da oltre vent'anni, nel 1981.


La Raccolta d’Esordio: “Ossi di Seppia”
 
Ossi di seppia: la raccolta comprende testi elaborati tra il 1920 e il 1925, in parte già apparsi in rivista.

Questa la struttura della raccolta,
si collocano quattro sezioni intitolate:
  • Movimenti
  • Ossi di seppia 
  • Mediterraneo
  • Meriggi e Ombre
La poesia degli Ossi è una poesia anti-eloquente e in negativo: non ha nessuna verità o certezza da rivelare, ma si limita a registrare la profonda angoscia del poeta, la sua “disarmonia” con il mondo, il suo “male di vivere”, appunto, che trova espressione in celebri metafore, quali “camminare lungo un muro”, “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, essere imprigionati in una rete, essere legati da una catena; talvolta si intravede una possibilità di salvezza. Ma è una possibilità suggerita, vaga.
Montale non vuole e non può darci la formula risolutiva; nessuna certezza positiva, ma solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Gli Ossi di seppia che danno il titolo alla raccolta, e cioè le conchiglie di certi molluschi, presenze inaridite e ridotte al minimo, appaiono emblematici di questa poetica dello “scabro ed essenziale”.
I motivi che attraversano la raccolta sono :
  1. il paesaggio
  2. l’amore
  3. l’evasione, la fuga
Il Linguaggio Poetico
Se la realtà osservata si rivela frantumata e sfuggente, il linguaggio poetico è al contrario, preciso ed esatto. Ogni oggetto poetico è designato dalla parola con assoluta precisione, legato a un solo significato. Essenziale e non ridondante è il lessico, e a tal fine Montale ricorre sia a termini tecnici che dialettali, che aulici.
La caratteristica preminente della lingua degli Ossi è la ricchezza lessicale: sono molti i vocaboli con un numero di occorrenze basso, talora veri e propri Hapax (cioè vocaboli che si presentano nell’opera una sola volta).
Modelli
La metrica degli Ossi non è una metrica rivoluzionaria. I metri tradizionali sono frequenti, settenari, novenari, endecasillabi.
Oltre che della lezione dannunziana, gli Ossi risentono anche di Dante,  Pascoli e i simbolisti francesi, soprattutto Verlaine.

NON CHIEDERCI LA PAROLA

È senza dubbio una delle poesie più celebri e citate di Montale. Si tratta del testo - scritto nel 1923 - che apre la sezione Ossi di seppia e contiene alcune idee essenziali per capire la concezione della poesia e del ruolo del poeta secondo Montale; è divenuta uno dei maggiori emblemi della poetica “negativa” di Montale.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti:
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

L'autore instaura un dialogo con il lettore stesso - o meglio, quel lettore che esige verità assolute e definitive – parlando a nome dei poeti, come si deduce dall’uso del plurale (Non chiederci), invitandolo a non chiedergli alcuna definizione precisa ed assoluta, né su stesso né sull'uomo in genere, e nemmeno sul significato del mondo e della vita. Egli infatti, a differenza dell'uomo "che se ne va sicuro" perché ignaro ed insieme incurante del senso della propria esistenza, non ha alcuna "formula" risolutiva, ma solo dubbi e incertezze, o tutt'al più una conoscenza negativa. Il poeta può soltanto rappresentare, con poche scarne parole, la precarietà della condizione umana.
In questa poesia, come già in “Meriggiare pallido e assorto”, appare il muro, immagine ricorrente nella poesia di Montale e simbolo del limite che domina la vita dell’uomo.
Non (Non: i vari “non” presenti nella poesia stabiliscono la struttura circolare sulla negatività, con un non si apre la lirica e con un non inizia l’ultima strofa) chiedere [a noi poeti] di  spiegare con precisione sotto tutti gli aspetti (parola che squadri da ogni lato) il nostro animo privo di certezze  (informe: che non ha certezze e una solida fisionomia), e con parole  chiare e indelebili (di fuoco) di avere risposte certe e definitive che risplendano come un croco (piante erbacea da cui si ottiene lo zafferano, dal colore giallo-rosso la cui vista spiccherebbe in un arido campo) in un campo grigio e polveroso (polveroso prato: simbolizza l’aridità della vita; con “scalcinato”, “canicola”, “ramo” secco rappresentano elementi connotati da una negatività)
Ah…muro: [il soggetto di questa quartina ha, al contrario del Poeta,  certezze. Il tono esclamativo esprime la commiserazione ironica del poeta nei riguardi di chi vive senza porsi problemi] Ah l’uomo che vive sicuro (senza preoccupazioni e affanni), e si sente in armonia (amico) con se stesso e con gli altri, e non ha paura della sua ombra proiettata dal sole ardente (la canicola) su un muro sgretolato (con tutto quello di inquietante essa potrebbe suggerire). Non domandarci  la formula magica o scientifica che possa darti una piena conoscenza della realtà e certezze sulle quali basare la tua esistenza (la formula…aprirti) ma solo qualche parola incerta e scarna (storta sillaba e secca) come un ramo secco [infatti la poesia montaliana  è una poesia antieloquente, che non ha verità da rivelare, e che non può che avere quindi una forma scarna ed essenziale], solo questo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo e ciò che non vogliamo (ciò che…vogliamo: oggi il poeta può definire solo una condizione negativa dell’esperienza)
Forma metrica: tre quartine di versi di varia lunghezza, con numerosi endecasillabi e doppi settenari, variamente rimati. Schema: ABBA CDDC (la prima e la seconda strofa a rime incrociate) EFEF (la terza a rime alternate). Rima ipermetra ai vv.6-7 (canicola fa rime con amico in quanto la sillaba finale la si fonde metricamente con il verso successivo).
Il modulo utilizzato è quello del colloquio con un interlocutore fittizio (un “tu” imprecisato). Il lessico è quotidiano, scarno ed essenziale.


SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO

Questa poesia è una delle più felici e famose espressioni della dolorosa concezione esistenziale montaliana, tratta un tema che tanto deve a Leopardi: “il male di vivere” e si ispira al v.104 del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “…a me la vita è male”.

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato


Parafrasi 

Spesso ho visto la sofferenza del vivere: era (era…era - anafora) il faticoso fluire del ruscello (rivo) che gorgoglia (come in un lamento) impedito nel suo scorrere (strozzato: un ostacolo impedisce al ruscello di fluire liberamente), era l’accartocciarsi della foglia  bruciata  dalla calura (riarsa:  è rinsecchita  e perciò si accartoccia - rimanda al consueto tema montaliano dell'aridità esistenziale che si rispecchia, oggettivandosi, nella natura), era  il cavallo stroncato dalla fatica (stramazzato)
Non conobbi (seppi) altra possibilità di salvezza (bene - anastrofe) se non nella condizione prodigiosa (prodigio condizione rara, eccezionale come un miracolo) che un atteggiamento di superiore distacco (divina Indifferenza – chiasmo – l’Indifferenza, con la i maiuscola, è conquista sovrumana che equipara l’uomo alla divinità) concede (schiude)[Il male di vivere può essere non annullato, ma almeno attenuato dall’indifferenza, che porta ad un distacco dalla realtà e quindi dal dolore]: era la statua nell’ora sonnolente del meriggio (l’immagine del meriggio cara al poeta accentua l’immobilità e l’indifferenza della statua) e la nuvola e il falco che vola lontano (verso ipermetro – per rendere lo slancio del volo che porta lontano il verso si distende oltre misura rispetto agli altri versi)
Statua..nuvola..falco: elenca immagini-simbolo dell’immobilità e quindi dell’indifferenza. La statua, immagine cara della poesia crepuscolare, viene caricata di un valore emblematico per indicare la staticità inerte e insensibile delle cose. La nuvola per la sua inconsistenza e il falco per la sua libertà istintiva, colti mentre si stagliano nel cielo in un momento di staticità.
La lirica è strutturalmente divisa in due parti che rappresentano due momenti della riflessione del poeta.
La prima parte è incentrata sul malessere esistenziale ravvisabile nelle situazioni quotidiane in cui si riscontra un crudele incepparsi delle cose. Montale trae alcuni esempi dalla realtà naturale, nel regno inanimato, animale e vegetale: "il rivo", "la foglia", "il cavallo", colti in un momento di precarietà e dolore, come sottolineano gli aggettivi ad essi collegati: "strozzato", "riarsa", "stramazzato": il ruscello che non può più scorrere, la foglia che si accartoccia, il cavallo che è stroncato dalla fatica. E’ la constatazione che gli aspetti più dimessi e quotidiani rivelano un pianto delle cose che testimonia un cosmico male di vivere e un’uguale sofferenza degli uomini (correlativo oggettivo).
Nella seconda quartina, in opposizione al "male di vivere", Montale afferma che l'unico "bene" per l'uomo consiste nell'atteggiamento di "indifferenza" per tutto ciò che è segnato dal male e dal dolore. Ai tre emblemi del "male" si contrappongono simmetricamente, tre esempi concreti di questa specie di "bene" (correlativi oggettivi): "la statua", "la nuvola" e il "falco": la statua si caratterizza per la sua fredda, marmorea insensibilità; la nuvola e il falco perché si levano alti al di sopra della miseria del mondo.
Forma metrica: Due quartine di endecasillabi, tranne l'ultimo verso che è un settenario doppio. Schema: ABBA CDDA. Il componimento ha un andamento discorsivo e il lessico è scarno ed essenziale.
Fonicamente la poesia si esprime per la contrapposizione tra i versi chiari e distesi della seconda quartina (in sintonia con l’immagine dell’indifferenza e del distacco) e i suoni invece aspri della prima quartina (in sintonia con l’immagine dell’angoscia esistenziale).



Seconda raccolta, “Le Occasioni”
 
Permane il motivo fondamentale della “disarmonia” e del dolore esistenziale, ma cambiano alcuni elementi: il paesaggio non solo non è più ligure ma toscano (il poeta si è trasferito nel frattempo a Firenze).
Se negli Ossi il poeta dialogava solo con il mare (tema principale della prima raccolta) o con un generico Tu, ora cerca interlocutori reali, concreti (ma per lo più fisicamente assenti); l’interlocutrice prediletta è una figura femminile.

Nelle Occasioni domina la ricerca di ciò che può costituire un’eccezione alla negatività, all’assurdo del reale: la ricerca insomma del “fantasma che ti salva”, che è qui un “fantasma” femminile, quello di Clizia. Il tema principale di tutta la raccolta "Le occasioni" è la figura femminile vista spesso in senso quasi religioso, salvifico e molto vicino all'immagine della donna che avevano i poeti stilnovisti del Duecento: quasi tutte le poesie della raccolta sono in realtà delle dediche a diverse donne che hanno costituito dei punti di riferimento importanti nella vita di Montale, ad esempio Anna degli Uberti (conosciuta in Liguria a Monterosso) oppure Irma Brandeis, un’ebrea americana studiosa di Dante e fuggita negli Stati Uniti dopo le leggi razziali emanate dal fascismo nel 1938.


Il balcone

L'intero volume è introdotto da una lirica intitolata "Il balcone", che fa parte della serie dei "Mottetti": si tratta di poesie di carattere descrittivo in cui è applicata la tecnica del "correlativo oggettivo" usata molto da Thomas Eliot.  Attraverso il “correlativo oggettivo”  sensazioni, ricordi, stati d’animo, i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro definizione in “oggetti” ben definiti e concreti. La valenza simbolica degli oggetti si accentua e si assolutizza.
La lirica di apertura è una dedica ad Anna degli Uberti, morta piuttosto prematuramente (a 54 anni) nel 1959.
Pareva facile giuoco
mutare in nulla lo spazio
che m'era aperto, in un tedio
malcerto il certo tuo fuoco.
Ora a quel vuoto ho congiunto
ogni mio tardo motivo,
sull'arduo nulla si spunta
l'ansia di attenderti vivo.
La vita che dà barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
finestra che non s'illumina.

L'espressione "mutare in nulla lo spazio che m'era aperto" sembra prefigurare la possibilità della rassegnazione di fronte alla ricerca di un senso da dare alla vita, ricerca che per il poeta appare molto travagliata e spesso non proficua: è evidente la contrapposizione con il Tu femminile, che invece sembra percorrere la vita sostenuta da certezze, come suggerisce l'espressione "il certo tuo fuoco".
Questa è in effetti una costante di tutta la poesia di Montale: la figura femminile viene vista come portatrice di una verità che sfugge al poeta e quindi può rappresentare una luce, un’ancora di salvezza in una vita dominata da continue incertezze e difficoltà.
Anna degli Uberti è quindi l'unica che può scorgere la vita che dà "barlumi": questo termine indica quei momenti magici della vita in cui l'esistenza appare dotata di senso e di significato e non soltanto un insensato susseguirsi di giorni sempre uguali, dominati dalla noia e dalla fatica.
"La finestra che non s'illumina" dell'ultimo verso è la memoria del poeta, che ripercorre gli istanti vissuti con Anna ormai morta, ma in un certo senso molto più "viva" del poeta, proprio perché inserita in una dimensione metafisica.


 
Terza raccolta: “La Bufera e altro”
 
La situazione storica, esterna, che fa da sfondo alla nuova produzione poetica si è fatta intanto, e si va facendo, sempre più cupa: il regime dittatoriale si è inasprito e all’orizzonte si addensano minacciose nuvole di guerra, le stesse che dominano la terza raccolta.
A differenza degli Ossi e delle Occasioni, La bufera e altro appare una raccolta non unitaria ma varia per tempi di composizione, temi e intonazione poetica. La guerra non provoca una nuova visione della realtà da parte del poeta, ma semplicemente conferma e accentua il rapporto critico e disarmonico con la realtà, concepita come “assurda, irrazionale e ininterpretabile”.


Satura

Gli anni sessanta e settanta, costituiscono lo sfondo della seconda stagione poetica montaliana.
Dopo la seconda guerra mondiale e i primi difficili tempi della ricostruzione, lo sviluppo capitalistico e il progresso tecnologico danno vita a una società di massa a cui Montale guarda con un distacco aristocratico e nostalgico. Il mondo che incontriamo in Satura, è ormai ridotto a detriti, a scorie, e il negativo è ancor più forte in quanto ormai dilagante.
Il titolo Satura, per ammissione dello stesso Montale, ha più significati:
  1. allude alla vena satirica che percorre la raccolta;
  2. e allude pure al sintagma latino satura lanx, che stava a indicare prima “ un piatto pieno di cibi diversi”;
  3. e poi anche un genere letterario caratterizzato dalla varietà di metri e di temi.
Il rovesciamento linguistico
In questa nuova stagione poetica il linguaggio di Montale si trasforma, lo stile viene rovesciato: il lessico tende al basso, al prosastico, e può essere definito grosso modo un lessico quotidiano.